E' con
particolare piacere che saluto per il secondo anno consecutivo il personale incontro con
gli Amici del Presepe. Anche perché, in tal modo, oltre a rinsaldare il dialogo con
persone evidentemente interessate a cose della nostra tradizione verso le quali sono
disposto con la medesima sintonia, trovo nuovamente occasione per esprimere considerazioni
su uno dei massimi accadimenti della storia dell'umanità, oltre che uno dei temi più
trattati dagli artisti: la Natività di Cristo.
Vediamoli ora più da vicino. Il primo è di certo il più atipico, non per contento o per forma, ma per la fisionomia del suo autore. Francesco Curradi fu un fiorentino, estremamente longevo anche come attività, visto che la sua data di nascita si colloca intorno al 1570 e quella di morte cade il 1661. Culturalmente è uno degli ultimi esponenti, in pieno XVII secolo, di quella corrente pittorica controriformistica e devota maturatasi in Toscana già alla fine del Cinquecento grazie all'opera di Santi di Tito, Cigoli, Passignano. Questa Natività è un esempio dignitoso di coerenza artistica e morale, difficilmente databile - ma siamo verso il secondo decennio del Seicento - proprio perché volutamente poco caratterizzata, in linea con lo spirito della controriforma romana e lontana da esasperazioni tanto formali quanto cromatiche, lontanissime poi da ogni empito barocco. La scena è raccolta, intima, calibratissima intorno a pochi personaggi a grande figura, ambientata in uno spazio scuro, vago e addirittura indistinto nella retrostante apertura del cielo luminoso in alto entro cui volano gli angioletti. Il tono intimista è ulteriormente rafforzato da un efficace amalgama di penombra e di colori teneramente impastati, entro cui fanno spicco solo pochi tagli di luce sui panni del Bambino, sul pannicello che ha in mano la Madonna e sui due volti a sinistra in secondo piano. La piana compostezza della scena e la scarsità di caratterizzazioni dei personaggi sono tali che qualche dubbio potrebbe ingenerarsi addirittura circa il soggetto rappresentato: una Natività o un'Adorazione dei pastori (ma la condizione neutra dei tre giovani adoranti assieme a Maria e a S. Giuseppe fa certamente propendere per il primo caso). Dipinto fascinoso, dunque, di un artista rarissimo a Napoli, ove qualche altra sua opera è conservata solo nella stessa Quadreria dei Girolamini. Ciò è tra l'altro segno di un interesse per Curradi, nella capitale del Viceregno, esclusivo di quest'Ordine, i cui rapporti culturali e di committenza erano infatti strettissimi all'epoca con gli ambienti di Roma e di Firenze, ben frequentati dall'artista.
Diversissimo è il caso dell'Adorazione di Stanzione al Museo di Capodimonte. Il quadro è del 1645 circa e reca il monogramma sulla roccia in basso a destra (sciolto sta a indicare: EQUES MAXIMUS FECIT; Stanzione era stato infatti creato cavaliere prima di quella data). Nonostante il maestro napoletano fosse un campione di un certo classicismo seicentista, pur sempre composto e mai propenso alle rotture, qui vediamo che certi schemi, sia iconografici che psicologici, sono assai mutati. Un solo grumo compositivo si accentra compatto. I personaggi sono assolutamente di carne, gli abiti di stoffa pesante, anche se le pelli che coprono i pastori non sembrano tanto rozze e non sembrano odorare dell'animale dal quale sono state tolte (Stanzione potrebbe essere definito in fondo un perbenista); gli angeli si sporgono si da un cielo dorato, ma sono anch'essi presenti, quasi curiosi; l'omaggio generale al Bambino è rispettoso, ma sentito, vissuto; l'ambientazione anche qui quasi non c'è, tuttavia distinguiamo chiaramente il proscenio di terra e rocce nude, la cresta di un muro da cui spunta il muso di un asino, uno squarcio di cielo azzurro e, a sinistra, un avanzo di colonna antica in pura funzione di quinta architettonica. La scena è rappresentata, pensata, studiata per un pubblico pur sempre vasto e di spiccata valenza devozionale, ma in buona parte anche evoluto per gusto e per disinvoltura di esperienze vissute. La tradizione artistica, culturale e di mestiere è ormai di gran lunga più importante di quella sacra dell'iconografia e della scrittura. Jusepe De Ribera - Adorazione dei pastori Il terzo caso è degnamente rappresentato
dalla grande tela di Ribera all'Escorial (ma eseguita a Napoli). Un dipinto un po'
sciupato per quanto attiene allo stato di conservazione, ma ancora splendidamente godibile
per la composizione in equilibrio dinamico, la ricchezza psicologica ed affettiva, i
giochi di luce e gli spari di colori, l'efficacia dei dettagli e della resa dei materiali.
È firmato e datato 1640 e con ogni probabilità proviene dalla collezione del viceré
Duca di Medina de las Torres, il quale poi lo regalò al re di Spagna assieme ad un
Giacobbe e il gregge e ad un Sogno di Giacobbe, anch'essi oggi all'Escorial. Sentiamo cosa
ne dice il Padre Ximenes in una sua descrizione a stampa del monastero del 1764: "Una
Natività di buona invenzione, Maria Santissima vestita con manto azzurro, molto originale
e bella, San Giuseppe ben disegnato e i Pastori e gli Angeli eseguiti con maestria. Si
può veramente annoverare questo dipinto fra i più famosi dello Spagnoletto". In
effetti la splendida figura di Maria gioca sui colori del manto e della veste e sembra
nutrirsi della luce proveniente dal Bambino, luce che dà vita a tutta la scena. Gli abiti
dei personaggi, le zampogne, le ceste di vimini, la paglia della mangiatoia, i chiodi nel
legno e i peli delle barbe e dei capelli sono più veri del vero, l'aria è pregna di
umori e da un momento all'altro ci si aspetta un cenno di moto dagli animali o dal trio
degli angioletti plananti a volo. Il sentimento religioso e la sensibilità umanizzata si
coniugano qui con i segni della vita vissuta, con le esperienze quotidiane. L'omaggio è
intimo e quasi ravvicinato ed è rivolto - da parte del pittore - tanto alle sacre figure
quanto ai più umili protagonisti umani, affratellati quasi da una resa pittorica di
qualità strabiliante. |