Raffaello
Sanzio, Lo sposalizio della Vergine, 1504, olio su
tavola, Milano, Pinacoteca
di Brera |
Composta
nel 1504, come ultima tra le pale d’altare realizzate per le
Chiese di Città di Castello, fu la prima opera datata e firmata
dall’autore. Realizzata ad olio su tavola (m. 1,70 x 1,17), la
composizione era stata commissionata all’autore dalla famiglia
Albizzini: infatti, sull’architrave che sormonta l’arco
centrale del tempio rappresentato sullo sfondo, reca la firma
“RAPHAELUS URBINAS”, mentre sui pennacchi dello stesso arco
si trova la data “MDIIII”.
Il dipinto fu compiuto dal pittore, a conclusione della prima
fase della sua attività, e nel periodo immediatamente
precedente il viaggio che egli effettuò a Firenze, per la
Chiesa di San Francesco; Il Vasari al riguardo annotava, nelle
sue “Vite”: “In San Francesco ancora della medesima città fece in una
tavoletta lo sposalizio di nostra Donna, nel quale espressamente
si conosce l’augumento della virtù di Raffaello venire con
finezza assottigliando e passando la maniera di Pietro. In
questa opera è tirato un tempio in prospettiva con tanto amore,
che è cosa mirabile a vedere de difficoltà che egli in tale
esercizio andava cercando”.
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A Pietro Perugino, ch’era stato maestro di Raffaello a Perugia,
s’ispirava appunto l’opera, con particolare riferimento al
dipinto d’identico titolo compiuto dall’artista
ultracinquantenne tra il 1500 ed il 1504.
Fulcro della composizione (come già nell’opera del maestro)
è la figura centrale del sacerdote che sorregge i polsi di
Giuseppe (il quale porge l’anello nuziale) e di Maria.
Rispetto all’opera del Perugino, Raffaello ha operato
un’inversione nella suddivisione dei personaggi che affiancano
gli sposi in due gruppi, maschile e femminile; ma questo non
rappresenta un motivo concreto di differenziazione tra le due
composizioni, date anche le somiglianze riscontrabili
nell’articolazione sciolta delle forme e negli stringenti
riferimenti al racconto dei testi sacri, riscontrabili in
entrambe le versioni: ci riferiamo in particolar modo al gesto
del pretendente, il quale spezza il proprio ramoscello, che non
è fiorito, a dimostrazione della consapevolezza che non è
lui il prescelto, proprio per la mancanza del fiore che avrebbe
dovuto adornare il bastone del futuro sposo, secondo il racconto
del testo sacro, preso come base della composizione.
Anche gli abbigliamenti dei personaggi paiono direttamente
ispirati all’iconografia del Perugino, così come allo stile
del maestro si riferisce l’addolcimento evidente nelle pose e
nei gesti delle figure, nonché nella lieve inclinazione uguale
e contraria delle teste dei personaggi dei due gruppi,
un’inclinazione che contribuisce a far convergere lo sguardo
dell’osservatore sulla scena centrale.
Eppure l’opera di Raffaello differisce da quella del maestro
per un motivo più sostanziale di quello che può essere il mero
repertorio simbolico e iconografico di riferimento.
Si tratta di un motivo che riguarda l’impostazione globale
delle due opere, un’impostazione tutta quattrocentesca, quella
del Perugino, laddove la versione di Raffaello ci pare già
calata a pieno nella temperie cinquecentesca della visione. Alla
rappresentazione della scena per piani paralleli, realizzata
appunto dal Perugino nel pieno rispetto delle regole della
prospettiva matematica, Raffaello sostituisce una
rappresentazione spaziale tutta giocata sulla prevalenza della
linea curva, in perfetta linea con quanto andava argomentando
Leon Battista Alberti nel suo testo “De re aedificatoria”.
Nel superamento del mero interesse pittorico per la forma
perfetta e matematica che ispira la composizione del Perugino,
su una linea d’intenti ricollegabile al primo Rinascimento, lo
“Sposalizio della Vergine” di Raffaello sembra coinvolgere
in un unico discorso proporzionale ed armonico tutte le arti,
attraverso l’utilizzazione di un medium pittorico limpidamente
ispirato ai più aggiornati raggiungimenti di Piero della
Francesca.
L’osservatore viene letteralmente risucchiato in un unitario
avvolgente globo spaziale, attraverso l’artificio sapiente
delle due ali divergenti tra loro di figure, di cui quella
esterna pare idealmente prolungarsi appunto al di là dei limiti
dello spazio del quadro: in questo spazio unitario Raffaello ha
saputo compendiare tutti gli aspetti della natura e dell’opera
dell’uomo con un discorso sacro coniugato in termini
d’immersione nel reale.
Un’immersione, però, che avviene in una realtà che viene
sottoposta dall’autore ad una sorta di operazione di
purificazione all’interno di una struttura ispirata al motivo
del cerchio, la figura geometrica perfetta per antonomasia e
simbolo dell’armonia cosmica. Come simbolo di quell’armonia
è il tempietto rappresentato sullo sfondo del dipinto e
strettamente riferibile al tempietto di San Pietro in Montorio
realizzata dal Bramante nel 1503 a Roma.
A differenza di quello riprodotto dal Perugino, che appare
tagliato alla sommità della cupola e distaccato dai personaggi
in primo piano, oltre che staticamente delimitato, nella sua
forma ottagonale, da quattro ponti laterali che ne potenziano lo
sviluppo in larghezza, il tempio ripreso da Raffaello, nel
raddoppiare il numero dei lati da otto a sedici, crea un effetto
ottico di circolarità. Un effetto che appare oltremodo
accentuato da una serie di artifici ottici, come le paraste
addossate sui lati del portico che accompagnano la circolarità
delle colonne, così come le volute superiori raccordano la
parte basse dell’edificio alla cupola curvilinea.
Il pavimento a lastroni, che nel dipinto del Perugino segue
l’andamento lineare della prospettiva matematica, diviene
nell’opera di Raffaello una sorta di ramificazione a raggiera
della struttura circolare, della quale suggerisce
un’espansione spaziale che supera i limiti del dipinto stesso
per estendersi nel suggerimento di una spazialità anche
retrostante della scena, quasi a voler sottolineare la sua
totale immersione in un’atmosfera reale. Pare quasi che
l’autore superi il tradizionale punto di fuga della
prospettiva matematica ed anticipi la suggestione leonardesca
per l’immersione appunto del soggetto nel passaggio,
un’ispirazione che gli avrebbe dettato alcuni lavori del
periodo fiorentino.
Ancora un volta Raffaello sembra riflettere le idee espresse
dall’Alberti nel suo testo “De re aedificatoria” con tali
parole:
“Non esiste opera architettonica che richiede maggiore
ingegno, sollecitudine, solerzia, accuratezza, di quanta ne
occorre per costruire e adornare il tempio […] Per queste
ragioni raccomandaremo che il tempio sia di tanta bellezza, che
nulla sia possibile immaginare che abbia un aspetto più adorno;
sia disposto in ogni particolare in modo tale che i visitatori
entrando vengono colpiti da stupore e da meraviglia alla vista
di cose tanto degni, e provino un desiderio incontenibile di
esclamare: ciò che vediamo è realmente un luogo degno di
Dio!”.
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