Fu
lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung a mettere in rilievo il
bisogno di immagini, dalle quali possa essere fecondata una vita
religiosa armonica e profonda. Immagini tali da rispondere a
quest’esigenza non vengono però prodotte in tutte le epoche e
da tutte le culture; molte volte non è nemmeno questione di
bellezza e raffinatezza artistica: da un punto di vista
religioso, il miglior Tiziano non può competere con la più
povera delle icone della Chiesa orientale o con una delle
Madonne in trono affrescate sulle pareti delle chiese romaniche.
Queste ultime hanno, infatti, sullo spettatore un impatto
emotivo che i capolavori dell’arte occidentale dal
Rinascimento in poi sono ben lontani dall’avere.
Junghianamente, l’immagine sacra deve parlare con immediatezza
allo spirito, attraverso i segni esteriori. Non a caso ho usato
la parola “segno”, che per alcuni coincide con la parola
“simbolo”, mentre per altri se ne diversifica; in questo
secondo caso, si può ritenere più pregnante il termine
“segno”, o invece il termine “simbolo”. Per la Chiesa
Cattolica, ad esempio, è il termine segno” ad essere
semanticamente più forte: i Sacramenti sono “segni efficaci
della Grazia”, cioè operano effettivamente la salvezza; per
lo psicologo Jung, è invece il “simbolo” a significar di più,
mentre il “segno” ha la funzione di un mero richiamo.
In ogni caso, il “segno” e il “simbolo” sono realtà
visibili, autonome nella propria esistenza, ma che, nonostante,
o proprio in forza di, questa loro autonomia, possono rinviare
ad una realtà superiore, invisibile.
Le realtà superiori sono, infatti, difficilmente accessibili al
linguaggio ordinario, discorsivo, che ben presto si accorge di
essere ben povera cosa, quando si prova a dire l’ineffabile:
Dante, il maestro della lingua, il “miglior fabbro del parlar
materno” (secondo la definizione che egli stesso diede di
Arnaut Daniel), ha sentito questa enorme difficoltà, nel
momento in cui si accingeva a narrare agli uomini la sua
esperienza del Paradiso: trasumanar significar per verba non si
potria ... e allora fa ricorso alle immagini simboliche, quale,
in questo caso, il mito di Glauco, che, mangiando un’alga,
divenne immortale, accolto fra gli dei del mare: però l’essemplo
basti a chi esperienza grazia serba (Paradiso, Canto I).
La principale legge del simbolismo è che nel dato naturale
traspaia la trascendenza; che cioè di fronte ad una immagine,
colui che guarda sappia (o meglio senta) che ciò che sta
guardando significa più di quanto l’immagine in sé
rappresenti: da qui la straordinaria fioritura, nelle chiese
medievali, di sculture che ad occhi moderni appaiono bizzarre o
semplicemente decorative (“hanno funzione ornamentale”, è
il consueto commento dei critici), mentre per i contemporanei
esse valevano più di mille parole.
Propongo alla riflessione dei lettori alcune immagini che ho
raccolto in giro per le città dell’Italia, nel corso dei miei
vagabondaggi estivi, rielaborandole, una volta tornato a casa.
La prima è tratta dalla decorazione del portale della chiesa di
santa Croce in Gerusalemme a Bologna: il leone che aggredisce un
uomo, mentre calca con una zampa la testa senza vita di un
altro, non può non richiamare alla mente del fedele consapevole
il monito dell’Epistola petrina: “il vostro avversario, il
diavoo, vi circuisce, cercando chi divorare”. La seconda
immagine, tratta dalla chiesa dei Santi Agricola e Vitale,
ancora a Bologna, mette uno accanto all’altro un Angelo, una
Sirena bifida, un uccello; strano accostamento, se non potessimo
pensare a tre diverse modalità del canto, musica celestiale,
oppure seduzione di una voce ingannevole, o anche semplice suono
della natura, che il fedele deve imparare a riconoscere.
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Ma la suggestione maggiore la trassi da questa splendida
immagine dell’Arcangelo Michele, sul portale della chiesa a
lui dedicata a Bevagna. La velocità del volo angelico è
indicata dalla posizione orizzontale e dal rotolo che si svolge
al vento, lasciando leggere le attribuzioni del Principe degli
eserciti celesti: auxilium miseris, [per]fectis gaudia pr(a)esto,
pr(a)ecepto D(o)m(i)n(i) librum pro munere gesto (do aiuto agli
infelici, gioia ai perfetti: come mio compito, per ordine del
Signore, porto il libro). La nobiltà del volto, la fermezza
dello sguardo, che vuole indicare la decisa volontà di obbedire
all’ordine dell’Altissimo, mostrano che l’artefice sapeva
che cos’è la santità, sapeva chi è un arcangelo, infine
sapeva che cos’è arte.
(continua)
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