Dico
subito che il collezionismo in sé non va né scoraggiato né,
tanto meno, condannato: esso, infatti, esprime l’amore per un
certo campo dell’umano operare, del quale si vogliono
raccogliere il maggior numero possibile di documenti: il sogno
di ogni collezionista è quello di raggiungere la totalità
della documentazione. Il collezionismo è quindi promotore di
raccolte complete di materiali che contribuiscono
all’elaborazione della storia. Attraverso una raccolta,
poniamo quella dei francobolli, è possibile delineare
l’evoluzione di quello strumento essenziale per la
comunicazione a distanza che è stata e continua ad essere la
posta. Una raccolta di “pastori” di terracotta documenta
l’evolversi (e talvolta il decadere) del gusto e delle
tecniche degli artigiani nelle varie epoche. Il presepe
“colto” del Settecento, con i “pastori” vestiti, con le
minuterie, con la scrupolosa raffigurazione di scene di vita
campestre e popolare, ci conserva il ricordo di strumenti, di
oggetti dell’uso quotidiano, di usanze varie, ricordo che
altrimenti rischierebbe di andare perduto. La maggior parte dei
musei nasce dalla passione antiquaria e collezionistica del
passato (il Museo Nazionale di Napoli, per esempio, nasce
attorno alla raccolta Farnese).
Detto questo, si deve passare all’aspetto deteriore del
collezionismo, quando questo si trasformi nel desiderio di
possesso fine a se stesso: vi è in ciò insito un pericolo per
l’oggetto, per il collezionista e, spesso, per la società.
Porto un esempio traendolo dal campo che mi è più vicino, a
causa della mia professione: la passione per il libro, strumento
fondamentale della conservazione e della trasmissione del
sapere, tecnicamente si dice “bibliofilia”. Naturalmente,
del libro si ama tutto: il contenuto, ovviamente, ma anche il
tipo di carta, perché questo è di vitale importanza per la
leggibilità e la durata del libro stesso. I libri stampati su
carta di stracci resistono all’usura e agli accidenti molto
meglio della carta di cellulosa, introdotta all’inizio
dell’Ottocento: se un libro del Seicento o del Settecento vi
cade nell’acqua, lo recuperate senza difficoltà, mentre lo
stesso incidente è fatale ai libri stampati dopo
l’introduzione della carta di cellulosa. La rilegatura, poi,
è importante sia per la preservazione del libro, sia per
un’agevole lettura: quando la rilegatura è scadente, tutti ne
abbiamo fatto esperienza, gli sforzi per tenere aperto il libro
impediscono al lettore la concentrazione sul testo. Come si
vede, ho parlato di pregi “estetici” che sono anche pregi
“funzionali”; la bellezza non è fine a se stessa, ma anche
tramite per un migliore godimento del contenuto.
Ma tutto questo può diventare oggetto di una vera e propria
mania: il bibliofilo che si trasforma in bibliomane ha paura di
maneggiare i propri libri; per non sciuparli non ne volta le
pagine, vale a dire non li legge; talvolta, perché il libro non
perda il proprio valore di mercato, lo lascia intonso, con le
pagine unite com’è uscito dal tipografo; vi sono di quelli
che non liberano i libri neanche dall’involucro in cui erano
protetti al momento della vendita. Questo “amore del libro”
diventa allora “mortificazione del libro”, nel senso
etimologico della parola: “mortificare”, cioè “rendere
morto”; morto e mummificato.
E’ chiaro che un desiderio siffatto, il quale non ha rispetto
per l’oggetto del proprio amore, diventa pericoloso dal punto
di vista sociale, quando, pur di soddisfarlo, si è pronti ad
infrangere norme e divieti fino al crimine vero e proprio; i
collezionisti maniaci sono propensi ad acquistare oggetti dalla
provenienza incerta, quando non sono essi stessi a commissionare
furti ai danni di Musei, Biblioteche e privati.
Il collezionismo di stampe giunge fino alla distruzione del
libro, poiché librai di pochi scrupoli preferiscono vendere le
illustrazioni separatamente, per realizzare un guadagno
maggiore. A chi vuole approfondire questo aspetto, posso
consigliare il volume di Miles Harvey, L’isola della mappe
perdute (Milano, Rizzoli, 2001), che narra la storia della
cartografia e dei furti cartografici, seguendo le orme di un
audace ladro, il quale, introducendosi nelle più prestigiose
biblioteche americane, asportava, a colpi di lametta da barba,
mappe e carte geografiche da antichi e preziosi volumi,
deturpando per sempre una documentazione a volte più unica che
rara.
Così, i furti d’arte, cui dà impulso un collezionismo di
questo tipo, distruggono la completezza della documentazione
storica, impoveriscono le nostre città, i nostri musei e le
nostre chiese, sottraendo al godimento pubblico le opere
d’arte, per metterle a disposizione di un solo individuo, per
un piacere non tanto privato, quanto solipsistico, poiché il
detentore di un’opera trafugata non potrà mai esporla al
pubblico, ma dovrà tenerla accuratamente celata. E questo
sarebbe amore dell’arte!
Il collezionismo in questo suo aspetto deteriore è responsabile
dell’aumento, a volte sproporzionato, dei prezzi di mercato e
dei conseguenti crimini a questo aumento collegati.
Traendo le conclusioni di questo discorso, sul quale, amici
Lettori, ci farebbe piacere conoscere il vostro pensiero, anche
il collezionismo dei “pastori” corre il pericolo di
trasformarsi nel senso negativo che ho cercato di chiarire.
Innanzitutto, un “pastore” è fatto per essere collocato su
un presepe; può essere più o meno bello, secondo l’abilità
dell’artigiano e la disponibilità economica del possessore;
ma esso diventa vivo solo quando prende parte a quella
fantastica rappresentazione della Natività, quando, assieme
agli altri personaggi, si reca alla grotta dove è nato il Bimbo
Divino o popola e anima le case, le vie, i campi del presepe.
Ben triste è la sorte di quel pastore, che il suo possessore
destina ad adornare una mensola o relega per sempre in una
vetrina, come testimonianza di un costoso acquisto (quanto più
costoso, tanto più prestigioso), nel corso di una passeggiata a
San Gregorio Armeno. Il pastore è allora mortificato, reso
morto, nel senso etimologico cui ho accennato.
Ho conosciuto invece un raffinato collezionista di pastori di
terracotta, il quale ne possedeva troppi, perché potessero
tutti trovare posto sul suo presepe. Collocati dunque i
personaggi irrinunciabili (sono quelli che abbiamo descritto in
un precedente articolo e la cui enumerazione ripetiamo in
un’altra parte di questo stesso numero), egli poneva sul
presepe, a rotazione, ora l’una ora l’altra delle figurine
di terracotta, perché a nessuna di esse, diceva, fosse negata
la gioia di partecipare alla sacra rappresentazione e così di
acquistare vita almeno per un breve periodo.
Se poi è lo stesso artigiano a collocare il “pastore” su
una base elaborata (prevedendo quindi in partenza che essa non
farà mai parte di un presepe), vuol dire che qualcosa proprio
non va e che bisogna cominciare a riflettere seriamente.
Mi accorgo di essere andato ben oltre lo spazio che mi ero io
stesso assegnato; ma l’argomento era troppo importante per non
essere affrontato. Ma anche così esso è ben lungi
dall’essere esaurito, anzi credo che esso è stato appena
impostato. Qualche nuova risposta ai vari interrogativi
suscitati potrà scaturire dalle pagine degli altri articoli di
questo stesso numero.
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