All'inizio del percorso presepiale, un personaggio attira subito l'attenzione, commovente per la sua giovane età e per l'atteggiamento: disteso su un umile giaciglio di erbe, con un braccio ripiegato a sorreggere la testa rovesciata all'indietro, un pastorello si abbandona alla dolcezza del sonno; accanto, le pecorelle pascolano mansuete, formando, con il dormiente, un quadretto idilliaco, che fonde insieme l'arte della poesia pastorale antica e la semplicità della pagina evangelica, ben piú profonda e ben altrimenti consapevole.
La scenetta è seducente, qualunque sia il grado di cultura di colui che la contempla.
A chi sa "di greco e di latino" (come diceva, con profondo senso dell'autoironia, Carducci) vengono subito alla mente i nomi famosi di Teocrito e di Virgilio; di quest'ultimo, soprattutto il verso iniziale della prima bucolica, Títyre, tú patulaé recubáns sub tégmine fági …, riaffiorerà tra i ricordi di scuola. Ricorderà, chi sa di greco e di latino, che Virgilio visse a Napoli e che qui fu sepolto, si dice presso l'ingresso della grotta che conduceva a Pozzuoli; se ha poi letto il libro del grande filologo Domenico Comparetti, Virgilio nel Medioevo, gli torneranno alla mente tutte le leggende che a Napoli erano diffuse su questo grande poeta, che era anche il piú sapiente tra i dotti della sua epoca e, di conseguenza, un esperto di arti magiche; stabilirà poi una connessione tra la celebre "quarta egloga", in cui si parla dell'avvento di una nuova era in connessione con la nascita di un bimbo, e le altre egloghe che narrano di un mondo pastorale, nel quale si vive in sintonia con la natura. Se è poi napoletano, non solo di nascita, ma anche di sensibilità profonda, sicuramente rivolgerà il pensiero anche ad un altro poeta, del Rinascimento stavolta, Iacopo Sannazaro, che scrisse una Arcadia e un De partu Virginis (un poema sul Parto della Vergine Maria), quasi che la nascita del Bambino Gesú sia indissolubilmente legata al mondo dei pastori. Questo delicato poeta fece edificare una chiesa su un costone roccioso, che all'epoca strapiombava sul mare di Margellina; la volle dedicare alla Vergine partoriente; nella sacra ombra della chiesa di "Santa Maria del Parto", egli riposa nel sepolcro posto dietro l'altare maggiore; nella stessa Chiesa, un artistico presepe ligneo ricorda ancora al viandante quello che, insieme alla poesia virgiliana, fu ciò che lo innamorò maggiormente: la nascita del Bambino Gesú.
Ma di tutto questo, o cortese Lettore, se avrai pazienza, dovrò ancora parlarti. Ma ora forse mi chiederai: "E chi non sa tutto quello di cui hai parlato?"
Con un po' di rimpianto, dovrò dirti che forse la sua gioia è più pura e più vera, com'era la mia, quando, del tutto ignaro di sapienza e poesia, bastavano a farmi felice le scintille che, sotto l'attento sguardo paterno, facevo brillare davanti all'immagine del Bimbo Divino, la Notte sacrata della Sua nascita secondo la carne; ma l'inconsapevolezza è una condizione, non una scelta: e la cultura è ormai un dovere. Continueremo quindi nelle nostre analisi, consapevoli sempre che con l'indagine razionale si corre sempre il rischio della profanazione, come già altre volte ti ho avvertito
All'inizio del percorso presepiale vi è, dunque, la figura di Benino, il pastorello immerso nel sonno. Essa non è posta lì a caso, così come, lo scopriremo volta per volta, nessuna delle altre figure occupa casualmente la sua posizione nel presepe.
Ma qui il sonno non è lo stato fisiologico, nel quale il nostro organismo, in riposo, recupera le forze di cui ha fatto dispendio nel corso del giorno. Qui il sonno indica, per analogia, una condizione dello spirito di estrema sensibilità e tensione; uno stato, diverso da quello della quotidianità, che non è ancora la luce di una coscienza superiore, ma che ad essa prelude.
Quella del "sonno" è dunque un'immagine con la quale si vuole alludere alla sospensione della coscienza quotidiana; secondo l'antico motto "quod superius quod inferius" (ciò che è in alto è come ciò che è in basso), le realtà ineffabili non possono essere dette se non mediante immagini che parlino non all'intelletto soltanto, ma alla totalità della persona. Solo così può essere superata la contraddizione di voler dire l'ineffabile (che, etimologicamente, è, appunto, l'indicibile).
Nella storia della cultura, molte volte è stato rappresentato questo stato di "sonno" in cui si compie un viaggio eccezionale.
Nell'Eneide di Virgilio il libro VI è consacrato al descensus ad inferos (discesa all'abisso) di Enea; al termine del suo viaggio oltremondano, da cui riceve nuovo vigore e impulso per la sua missione, l'eroe esce dalla porta d'avorio, da cui sogliono uscire i sogni falsi.
Dante, all'inizio del suo poema, dice di non ricordare come entrò nella selva: "tant'era pieno di sonno a quel punto che la verace via abbandonai"; lo smarrimento nella selva è il preludio e anche la condizione necessaria perché Dante dia inizio al viaggio.
Questi sono esempi noti a tutti; forse è meno conosciuto uno straordinario testo del nostro pieno Rinascimento letterario, la Hypnerotomachia Poliphili, il cui titolo significa, letteralmente, la "battaglia d'amore in sogno di Polifilo".
Polifilo è il il protagonista di una straordinaria avventura dello spirito; il suo nome significa "colui che ama Polia (figura femminile, che è, con tutta probabilità, la "Sapienza"). Mentre si cruccia per il suo amore non corrisposto, si addormenta e inizia a sognare: si vede, similmente a Dante, smarrito in un'oscura e aspra selva, dalla quale solo a fatica riesce ad uscire, stanco ed assetato. Chinatosi a bere sulla riva di un ruscello, si lascia attrarre da un soave canto che ode in lontananza; per seguirlo, si caccia in ben piú gravi pericoli; riuscito ancora una volta a sfuggire, spossato, arso dalla sete, si distende a riposare e nuovamente viene colto dal sonno e, nel sogno, riprende a sognare. Nella straordinaria visione che ne consegue, egli rivive tutta la grandezza e il declino dell'Antichità.
Questo testo umanistico, emblematico ed enigmatico ad un tempo, che nella nostra cultura non ha avuto molta fortuna, pur lavorando, per così dire sotterraneamente e contribuendo a formare un gusto, appartiene alla fine del '400. E', oltre tutto, uno dei libri figurati piú belli dell'arte tipografica del grande Aldo Manuzio. Una delle figure che lo impreziosiscono mostra appunto Polifilo che, disteso sotto un albero, dorme. Il paragone con Benino si impone da sé.
NOTA
Il testo del "Polifilo" porta la data del Calendimaggio del 1467, ma è probabile che questa si riferisca alla prima idea dell'opera, e non alla stesura definitiva, la quale fu data alle stampe, nella tipografia veneziana del grande Aldo Manuzio, nel 1499; il testo è intervallato da xilografie che dell'opera costituiscono parte integrante e il motivo maggiore del suo fascino, rappresentando, oltre tutto, un interessante capitolo della Storia dell'Arte. Le lettere iniziali dei singoli capitoli rivelano il nome dell'autore (mediante quel procedimento retorico che costituisce il cosiddetto "acrostico"): Francesco Colonna, che, a partire dal Settecento, fu identificato in un frate del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia; ma questa identificazione è stata di recente messa in dubbio, anzi decisamente negata, dallo storico dell'arte Maurizio Calvesi, che assicura trattarsi invece di quel Francesco Colonna che fu signore di Palestrina, l'antica Preneste, e discendente di quel Colonna amico di Francesco Petrarca. In ogni caso, l'autore mostra di possedere una straordinaria cultura la quale si estende dalla conoscenza degli antichi monumenti fino alla botanica ed è espressa in un curioso, ma efficacissimo linguaggio personale fatto di volgare, di latino e di greco, spesso di difficile comprensione, ma piacevolissimo, una volta che si sia superato il primo impatto e se ne sia penetrato il meccanismo: la lettura dà allora lo stesso diletto che, sull'altro versante, procurano le opere maccheroniche di Teofilo Folengo o, ai giorni nostri, il romanzo di Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana.
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