Bomarzo, in provincia di
Viterbo, di fronte ai monti Cimini, possiede, nel “Sacro Bosco”,
uno dei luoghi simbolici più interessanti della nostra Penisola,
di quelli che l’ultimo alchimista di cui siamo a conoscenza, il
celebre ed enigmatico Fulcanelli, avrebbe chiamato “dimore
filosofali”.
Arroccata su una rupe,
Bomarzo domina una valle che un principe del Cinquecento,
Pierfrancesco, detto Vicino, Orsini, trasformò in un luogo di
riflessione e di ricerca, oltre che di pace e serenità.
Vicino Orsini nacque nel 1523
e fu soldato di un certo valore, ma sfortunato, poiché nel corso
di una campagna contro la Francia fu fatto prigioniero (1553) e
solo tre anni dopo poté ritornare a casa.
L’anno prima dell’impresa di
Francia, Vicino aveva già cominciato i lavori nel suo boschetto;
ritornato in patria, vi attese fino alla sua morte, avvenuta nel
1585.
Quella di Vicino è
un’interessante personalità di Signore Rinascimentale, non
estraneo all’arte militare e neanche al pensiero ermetico e
filosofico (fu sicuramente epicureo); un interessante parallelo
potrebbe essere istituito con un’analoga personalità del
Settecento Napoletano, Raimondo de’ Sangro, principe di
Sansevero; anch’egli esperto di arte militare, anch’egli
studioso di ermetismo e indagatore, ha lasciato, nella
Chiesa di Santa Maria della Pietà dei Sangro, un caratteristico
e celebre documento di “dimora filosofale”.
Vicino adattò il bosco che
ricopriva la vallata a formare un percorso lungo il quale il
visitatore trovava sculture ed edifici enigmatici, illustrati da
iscrizioni che, talvolta, più che chiarire il mistero, lo
infittiscono.
La particolarità del “Sacro
Bosco” è costituita dalle sculture e dai monumenti che non
provengono da un laboratorio esterno, ma sono stati tratti
direttamente dai massi che si trovavano sul posto. Vicino
lavorava intensamente a pensare, a disegnare, a creare le
immagini a partire dalle quali artisti e artigiani modellavano
poi le figure traendole dalle rocce, secondo quell’idea di
Michelangelo che la forma è già nella pietra ed all’artista è
affidato il compito di trarla fuori con lo scalpello.
Non ha l’ottimo artista alcun
concetto
Che un marmo prima in sé non
circoscriva
Col suo soperchio; e solo a
quello arriva
La man che tiene dietro
all’intelletto.
Proprio a queste sculture,
che con il loro carattere strano hanno impressionato
sfavorevolmente gli abitanti delle località intorno, il luogo
deve il nome di “Parco dei mostri”; con cui è conosciuto. Ma non
sembra giusto o corretto, né sotto il profilo etico, né sotto
quello conoscitivo ed esegetico, classificarlo sotto il segno
della “bizzarria”, come ha fatto qualche studioso. A Vicino
l’elaborazione del “Sacro Bosco” costò la fatica intellettuale,
la tensione spirituale di una vita; ed egli prendeva il suo
bosco molto sul serio, dal momento che volle onorare la memoria
della sua sposa, l’amata Giulia Farnese, morta intorno al
1557-58, dedicandole un tempietto sulla sommità di un poggio, in
posizione dominante rispetto al resto del bosco, che è così come
posto sotto il segno di lei. Vicino usava il nome di “Sacro
Bosco”, per la sua creazione; e così anche lo chiamiamo noi,
aborrendo la denominazione “Parco dei mostri”, che si trova nei
cartelli indicatori.
A Bomarzo si deve giungere
con una certa gradualità, evitando di prendere l’autostrada e di
piombarvi come estranei visitatori della domenica. Consiglio di
partire, per chi viene da Sud, da Roma, di prendere la strada
per Bracciano, o per Sutri, facendo una sosta a Viterbo, la
città dalle meravigliose fontane in pietra locale, fermandosi al
Santuario di Santa Maria della Quercia, visitando villa Lante a
Bagniaia, e quindi giungere a Bomarzo imbevuti ormai dell’aria
dei luoghi.
Solo dopo aver vissuto i
luoghi, le sculture di Bomarzo non appariranno “mostruose
escrescenze”, come apparvero a Mario Praz, grande anglista,
raffinato uomo di cultura, ma purtroppo frettoloso visitatore di
Bomarzo.
Occorre un’avvertenza: il
percorso che oggi si propone al visitatore non è più quello
originario. Dopo la morte di Vicino Orsini il bosco cambiò più
volte padrone, ma lentamente cadde in un oblio che durò secoli,
fino agli anni trenta del Novecento, grazie anche all’entusiasmo
che il luogo suscitò in Dalì e nel suo genio surrealista. Solo
di recente si è cercato di ricondurre la località all’antico
splendore, ma è stato molto difficile recuperare la struttura
originaria rovinata non solo dal secolare abbandono, ma anche da
eventi naturali che alterarono la fisionomia dei luoghi, mentre
i monumenti erano stati pressoché sepolti dalla vegetazione.
Al viandante che ha qualche
conoscenza dei simboli non sfuggirà il torrente che si
attraversa mediante un ponticello e che è il chiaro segno che si
sta intraprendendo un viaggio al di là della soglia: come nel
percorso presepiale, lungo il quale, l’avvertimmo a suo luogo,
non può mancare il fiume.
Due sfingi
fiancheggiano l’ingresso, simbolo dell’enigma, che per gli
antichi coincideva con la Sapienza. Sui basamenti delle sfingi
due iscrizioni invitano ad entrare nel Sacro Bosco con l’adatto
atteggiamento e l’adatta disposizione della mente.
TV CH’ENTRI QVA
PON MENTE
PARTE A PARTE
ET DIMMI POI SE
TANTE
MERAVIGLIE
SIEN FATTE PER
INGANNO
OVER PER ARTE
CHI CON CIGLIA
INARCATE
ET LABRA STRETTE
NON VA PER QUESTO
LOCO
MANCA AMMIRA
LE FAMOSE DEL
MONDO
MOLI SETTE
.
Prendendo a sinistra,
si percorre un viale fiancheggiato da erme quadrifronti, in
fondo al quale un mascherone dalle fauci spalancate, contornate
di denti, allude, con il globo che lo sormonta, al Tempo che
tutto ingoia.
Tornando
indietro e prendendo a destra, si vede in alto sul poggio il
tempietto dalla deliziosa foggia vignolesca (il Vignola fu molto
attivo a Roma e nell’Alto Lazio), si incontra prima un colosso
che atterra una figura femminile anch’essa gigantesca,
probabilmente Orlando che abbatte un’amazzone, poi un’enorme
tartaruga sormontata da una figura alata che suona la tromba e
quindi una fontana da cui scaturisce la figura dell’alato
destriero Pegaso.
Tra queste
immagini, quella che occupò di più il loro ideatore dovette
essere l’Orlando, dal momento che Vicino vi appose questa
iscrizione:
SE RODI ALTIER
FV GIÀ DEL SVO COLOSSO
PVR DI QVEST IL
MIO BOSCO ANCO SI GLORIA
E PER PIV NON
POTER FO QVANTO POSSO
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Una spianata, ai cui lati
vi sono le immagini dell’Oceano e della Terra, è
contornata da enormi vasi in pietra e da una serie di
figure mostruose, che sono poi quelle che hanno
conferito al luogo il nome con cui è volgarmente
conosciuto: un drago è assalito da un cane e da un
leone, un elefante da guerra stritola nella proboscide
un soldato romano.
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Alle spalle del drago, il
monumento più celebre dell’intero sito è la cosiddetta
“bocca dell’Orco”, un mascherone il cui ingresso è
costituito da una bocca spalancata e zannuta , mentre
due finestrelle tonde sono al posto degli occhi. Intorno
alla bocca una inscrizione incisa recita: OGNI PENSIERO
VOLA. |
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Questo ambiente, che ricorda
le tombe a camera etrusche (Bomarzo fu città etrusca, prima di
essere romana con il nome di Polimartium), è contornato
da un sedile che corre lungo la parete ed al suo centro ha un
tavolo, che, visto dall’esterno, raffigura la lingua della
spaventosa bocca.
Nella radura antistante, un
sedile di pietra reca sulla spalliera l’invito al viandante ad
ammirare le sculture del bosco:
VOI CHE PEL MONDO
GITE ERRANDO, VAGHI
DI VEDER
MARAVIGLIE ALTE ET STUPENDE
VENITE QVA DOVE
SON FACCIE HORRENDE
ELEFANTI LEONI
ORSI ORCHI ET DRAGHI
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L’immagine
di Cerbero, l’infernale cane a tre teste, sorveglia
alcuni gradini che scendono da una terrazza naturale
superiore, in fondo alla quale i monumenti più notevoli
sono una Sirena ed un’Arpia, divinità del mondo Infero,
per opposte ragioni pericolose ai viandanti |
|
.
CEDAN ET MEMPHI E
OGNI ALTRA MERAVIGLIA
CH’EBBE GIA IL
MONDO IN PREGIO AL SACRO BOSCO
CHE SOL SE STESSO
E NVILL’ALTRO SOMIGLIA
Con questa iscrizione, Vicino
esprime l’orgogliosa pretesa, espressa già sul basamento di una
delle sfingi, che il suo Sacro Bosco viene ad aggiungersi alle
Sette Meraviglie di cui l’Antichità ci ha lasciato notizia.
Quello che è il monumento più
singolare del “sacro Bosco”, la “Casa pendente”, oggi si fa
incontro al visitatore per ultimo, mentre in origine era il
primo, o quasi: si tratta di un ambiente in cui la forza di
gravità gioca a chi vi entra il tiro di far sembrare storto
tutto il mondo esterno, che si scorge dalle finestre, mentre si
è colti da un senso di vertigine, che a me non è mai sembrato
spiacevole. E’ chiaro che mediante questo artificio, Vicino
voleva avvertire il visitatore, già ammonito dalle iscrizioni
sulle basi delle Sfingi, che nel Sacro Bosco le leggi vigenti
sono diverse da quelle del resto del mondo, che entrandovi
bisogna abbandonare i radicati convincimenti e ad accettare una
nuova visione delle cose.
E’ un peccato che dalle
sculture siano spariti i colori e che buona parte delle
iscrizioni siano ormai cancellate, svanite per sempre. Ma il
fascino del Sacro Bosco non ne resta diminuito, ma forse
accresciuto, offrendo al visitatore l’obbligo di integrare con
la fantasia, prima di accingersi all’opera dell’interpretazione.
Ho dato in queste pagine una
prima, sommaria descrizione, che costituisca per il Lettore la
spinta ad andare a vedere con i propri occhi.
A partire da settembre, conto
di dare una descrizione più puntuale ed approfondita di questa
località che da almeno un decennio costituisce una delle mete
dei miei “pellegrinaggi”.
Sette luglio 2005
Italo Sarcone