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Anno 6 - n.2 - Giugno 2006
 
 

  IL “SACRO BOSCO” DI BOMARZO

 

     
             

Bomarzo, in provincia di Viterbo, di fronte ai monti Cimini, possiede, nel “Sacro Bosco”, uno dei luoghi simbolici più interessanti della nostra Penisola, di quelli che l’ultimo alchimista di cui siamo a conoscenza, il celebre ed enigmatico Fulcanelli, avrebbe chiamato “dimore filosofali”.

Arroccata su una rupe, Bomarzo domina una valle che un principe del Cinquecento, Pierfrancesco, detto Vicino, Orsini, trasformò in un luogo di riflessione e di ricerca, oltre che di pace e serenità.

Vicino Orsini nacque nel 1523 e fu soldato di un certo valore, ma sfortunato, poiché nel corso di una campagna contro la Francia fu fatto prigioniero (1553) e solo tre anni dopo poté ritornare a casa.

L’anno prima dell’impresa di Francia, Vicino aveva già cominciato i lavori nel suo boschetto; ritornato in patria, vi attese fino alla sua morte, avvenuta nel 1585.

Quella di Vicino è un’interessante personalità di Signore Rinascimentale, non estraneo all’arte militare e neanche al pensiero ermetico e filosofico (fu sicuramente epicureo); un interessante parallelo potrebbe essere istituito con un’analoga personalità del Settecento Napoletano, Raimondo de’ Sangro, principe di Sansevero; anch’egli esperto di arte militare, anch’egli studioso di ermetismo e indagatore, ha lasciato, nella Chiesa di Santa Maria della Pietà dei Sangro, un caratteristico e celebre documento di “dimora filosofale”.

Vicino adattò il bosco che ricopriva la vallata a formare un percorso lungo il quale il visitatore trovava sculture ed edifici enigmatici, illustrati da iscrizioni che, talvolta, più che chiarire il mistero, lo infittiscono.

La particolarità del “Sacro Bosco” è costituita dalle sculture e dai monumenti che non provengono da un laboratorio esterno, ma sono stati tratti direttamente dai massi che si trovavano sul posto. Vicino lavorava intensamente a pensare, a disegnare, a creare le immagini a partire dalle quali artisti e artigiani modellavano poi le figure traendole dalle rocce, secondo quell’idea di Michelangelo che la forma è già nella pietra ed all’artista è affidato il compito di trarla fuori con lo scalpello.

 

Non ha l’ottimo artista alcun concetto

Che un marmo prima in sé non circoscriva

Col suo soperchio; e solo a quello arriva

La man che tiene dietro all’intelletto.

 

Proprio a queste sculture, che con il loro carattere strano hanno impressionato sfavorevolmente gli abitanti delle località intorno, il luogo deve il nome di “Parco dei mostri”; con cui è conosciuto. Ma non sembra giusto o corretto, né sotto il profilo etico, né sotto quello conoscitivo ed esegetico, classificarlo sotto il segno della “bizzarria”, come ha fatto qualche studioso. A Vicino l’elaborazione del “Sacro Bosco” costò la fatica intellettuale, la tensione spirituale di una vita; ed egli prendeva il suo bosco molto sul serio, dal momento che volle onorare la memoria della sua sposa, l’amata Giulia Farnese, morta intorno al 1557-58, dedicandole un tempietto sulla sommità di un poggio, in posizione dominante rispetto al resto del bosco, che è così come posto sotto il segno di lei. Vicino usava il nome di “Sacro Bosco”, per la sua creazione; e così anche lo chiamiamo noi, aborrendo la denominazione “Parco dei mostri”, che si trova nei cartelli indicatori.

 

A Bomarzo si deve giungere con una certa gradualità, evitando di prendere l’autostrada e di piombarvi come estranei visitatori della domenica. Consiglio di partire, per chi viene da Sud, da Roma, di prendere la strada per Bracciano, o per Sutri, facendo una sosta a Viterbo, la città dalle meravigliose fontane in pietra locale, fermandosi al Santuario di Santa Maria della Quercia, visitando villa Lante a Bagniaia, e quindi giungere a Bomarzo imbevuti ormai dell’aria dei luoghi.

Solo dopo aver vissuto i luoghi, le sculture di Bomarzo non appariranno “mostruose escrescenze”, come apparvero a Mario Praz, grande anglista, raffinato uomo di cultura, ma purtroppo frettoloso visitatore di Bomarzo.

 

Occorre un’avvertenza: il percorso che oggi si propone al visitatore non è più quello originario. Dopo la morte di Vicino Orsini il bosco cambiò più volte padrone, ma lentamente cadde in un oblio che durò secoli, fino agli anni trenta del Novecento, grazie anche all’entusiasmo che il luogo suscitò in Dalì e nel suo genio surrealista. Solo di recente si è cercato di ricondurre la località all’antico splendore, ma è stato molto difficile recuperare la struttura originaria rovinata non solo dal secolare abbandono, ma anche da eventi naturali che alterarono la fisionomia dei luoghi, mentre i monumenti erano stati pressoché sepolti dalla vegetazione.

 

Al viandante che ha qualche conoscenza dei simboli non sfuggirà il torrente che si attraversa mediante un ponticello e che è il chiaro segno che si sta intraprendendo un viaggio al di là della soglia: come nel percorso presepiale, lungo il quale, l’avvertimmo a suo luogo, non può mancare il fiume.

 

 

 

 

 Due sfingi fiancheggiano l’ingresso, simbolo dell’enigma, che per gli antichi coincideva con la Sapienza. Sui basamenti delle sfingi due iscrizioni invitano ad entrare nel Sacro Bosco con l’adatto atteggiamento e l’adatta disposizione della mente.

 

 

TV CH’ENTRI QVA PON MENTE

PARTE A PARTE

ET DIMMI POI SE TANTE

MERAVIGLIE

SIEN FATTE PER INGANNO

OVER PER ARTE

 

 

CHI CON CIGLIA INARCATE

ET LABRA STRETTE

NON VA PER QUESTO LOCO

MANCA AMMIRA

LE FAMOSE DEL MONDO

MOLI SETTE

 Prendendo a sinistra, si percorre un viale fiancheggiato da erme quadrifronti, in fondo al quale un mascherone dalle fauci spalancate, contornate di denti, allude, con il globo che lo sormonta, al Tempo che tutto ingoia.

Tornando indietro e prendendo a destra, si vede in alto sul poggio il tempietto dalla deliziosa foggia vignolesca (il Vignola fu molto attivo a Roma e nell’Alto Lazio), si incontra prima un colosso che atterra una figura femminile anch’essa gigantesca, probabilmente Orlando che abbatte un’amazzone, poi un’enorme tartaruga sormontata da una figura alata che suona la tromba e quindi una fontana da cui scaturisce la figura dell’alato destriero Pegaso.

 

 

Tra queste immagini, quella che occupò di più il loro ideatore dovette essere l’Orlando, dal momento che Vicino vi appose questa iscrizione:

 

 

SE  RODI ALTIER FV GIÀ  DEL SVO COLOSSO

PVR DI QVEST  IL MIO BOSCO ANCO SI GLORIA

E PER PIV NON POTER FO QVANTO POSSO

 

 

Una spianata, ai cui lati vi sono le immagini dell’Oceano e della Terra, è contornata da enormi vasi in pietra e da una serie di figure mostruose, che sono poi quelle che hanno conferito al luogo il nome con cui è volgarmente conosciuto: un drago è assalito da un cane e da un leone, un elefante da guerra stritola nella proboscide un soldato romano.

 

   

Alle spalle del drago, il monumento più celebre dell’intero sito è la cosiddetta “bocca dell’Orco”, un mascherone il cui ingresso è costituito da una bocca spalancata e zannuta , mentre due finestrelle tonde sono al posto degli occhi. Intorno alla bocca una inscrizione incisa recita: OGNI PENSIERO VOLA.

 

 

Questo ambiente, che ricorda le tombe a camera etrusche (Bomarzo fu città etrusca, prima di essere romana con il nome di Polimartium), è contornato da un sedile che corre lungo la parete ed al suo centro ha un tavolo, che, visto dall’esterno, raffigura la lingua della spaventosa bocca.

Nella radura antistante, un sedile di pietra reca sulla spalliera l’invito al viandante ad ammirare le sculture del bosco:

 

VOI CHE PEL MONDO GITE ERRANDO, VAGHI

DI VEDER MARAVIGLIE ALTE ET STUPENDE

VENITE QVA DOVE SON FACCIE  HORRENDE

ELEFANTI LEONI ORSI ORCHI ET DRAGHI

 

 L’immagine di Cerbero, l’infernale cane a tre teste, sorveglia alcuni gradini che scendono da una terrazza naturale superiore, in fondo alla quale i monumenti più notevoli sono una Sirena ed un’Arpia, divinità del mondo Infero, per opposte ragioni pericolose ai viandanti

 

 .

CEDAN ET MEMPHI E OGNI ALTRA MERAVIGLIA

CH’EBBE GIA IL MONDO IN PREGIO AL SACRO BOSCO

CHE SOL SE STESSO E NVILL’ALTRO SOMIGLIA

 

Con questa iscrizione, Vicino esprime l’orgogliosa pretesa, espressa già sul basamento di una delle sfingi, che il suo Sacro Bosco viene ad aggiungersi alle Sette Meraviglie di cui l’Antichità ci ha lasciato notizia.

Quello che è il monumento più singolare del “sacro Bosco”, la “Casa pendente”, oggi  si fa incontro al visitatore per ultimo, mentre in origine era il primo, o quasi: si tratta di un ambiente in cui la forza di gravità gioca a chi vi entra il tiro di far sembrare storto tutto il mondo esterno, che si scorge dalle finestre, mentre si è colti da un senso di vertigine, che a me non è mai sembrato spiacevole. E’ chiaro che mediante questo artificio, Vicino voleva avvertire il visitatore, già ammonito dalle iscrizioni sulle basi delle Sfingi, che nel Sacro Bosco le leggi vigenti sono diverse da quelle del resto del mondo, che entrandovi bisogna abbandonare i radicati convincimenti e ad accettare una nuova visione delle cose.

 

E’ un peccato che dalle sculture siano spariti i colori e che buona parte delle iscrizioni siano ormai cancellate, svanite per sempre. Ma il fascino del Sacro Bosco non ne resta diminuito, ma forse accresciuto, offrendo al visitatore l’obbligo di integrare con la fantasia, prima di accingersi all’opera dell’interpretazione.

 

Ho dato in queste pagine una prima, sommaria descrizione, che costituisca per il Lettore la spinta ad andare a vedere con i propri occhi.

A partire da settembre, conto di dare una descrizione più puntuale ed approfondita di questa località che da almeno un decennio costituisce una delle mete dei miei “pellegrinaggi”.

 

Sette luglio 2005

 

Italo Sarcone