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Anno 1 - n.1 - Dicembre 2000
 

  La fede e la cultura del presepe napoletano del XVII secolo.   

 

i questi grandi complessi non esiste nessuna immagine a ricordarli; le poche scarabattole e le campane di vetro (ancora integre del loro contenuto), non hanno per concezione e specificità d’uso, i riferimenti spaziali necessari alle macchine sceniche presepiali settecentesche. Tantomeno queste esaltazioni prospettiche sono rilevabili nel "forse" presepe Sdanghi conservato al Bayerisches National Museum di Monaco. Anche il "tardo" presepe Reale allestito nel 1844 nella Reggia di Caserta non possedeva qualità spaziali e partecipazione, come si può facilmente rilevare dalla lettura delle quattro tempere del Fergola a testimonianza ( ? ) dell’evento. La documentazione fotografica della seconda metà dell’ottocento e dell’inizio del novecento, illustra allestimenti alquanto banali, mentre risulta storicamente interessante per il paesaggio di mano dei pastori. Di segno inverso a tale iconografia, risulta infruttuosa per la ricerca di aderenze al pensiero illuminato, è il presepe Cuciniello. Messo in opera tra il 1887 e il 1889 nel Museo di San Martino (prescindendo dalle ragioni relative alla sua installazione, e il fuori tempo di almeno cento anni); credo, possa essere considerato un esempio, l’unico riferimento valido al carattere della grande stagione presepiale settecentesca. Supportano questa tesi: le ampie e ingannevoli prospettive; le scelte tipologie e i legami tra i pastori - attori; e la corale partecipazione del collettivo (ambiente e figur ), al non accantonato "Mistero".
L’opportunità di utilizzare figure presepiali vecchie di centinaia d’anni, è una discutibile operazione artistica; proprio per l’unione di due concezioni tanto distanti tra loro: i pastori, ideati e costruiti in una data epoca e sotto l’influsso di quel determinato pensiero; e la scenografia, realizzata in un momento decisamente diverso che non riflette le idee del proprio tempo, e si conforma (attuando un prodotto di maniera), a una passata, esausta corrente espressiva.
Posizione discutibile, se vista in questo momento di transizione, dove la manipolazione del componimento artistico di autori del passato è sempre più attuata, favorendo un processo che vanifica la stessa concezione storica dell’opera d’arte.
Al di la di questa o quell’altra posizione critica, esiste ugualmente la massima libertà di fare e disfare; quindi, se un collezionista vuole impiegare la sua raccolta di figure per allestire il presepe, se desidera togliere dal forzato esilio in teche e vetrine i pastori, gli animali, e le tante piccole cose accessorie per dare forma al suo disegno, sarà, sotto certi aspetti un’operazione antistorica. Comunque.......
Ripetere quell’esperienza lontana è una impresa notevole, coraggiosa, e certo di non facile realizzazione. Una costruzione di grandi dimensioni da tenere ferma lì, fissa , sempre presente, premette valutazioni e scelte sicure, senza ripensamenti. Così, volendo riprovarci, come accadeva nel secolo d’oro, ancora oggi alle soglie del duemila, è indispensabile (se la concezione del "masso" non è dello stesso collezionista), l’incontro di due precise personalità: committente e regista. La consapevolezza di affidare l’esecuzione del progetto e la relativa edificazione, senza intromissioni, a una individualità eclettica, sospesa tra arte e mestiere, praticante la pittura, la scenografia, il teatro, e, non ultima, l’effettiva capacità organizzativa di amalgamare la complicata, molteplice realtà delle partecipazioni, per un’unica lettura d’insieme; è la necessaria premessa per la riuscita del lavoro.

Gaeta